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OMAGGIO A GIANFRANCO CECCHIN

Il cielo in una stanza: una esperienza di supervisione paritaria tra terapeute sistemiche

Pasqua Teora, Maria E.Castiglioni, Donatella Carnaccini, Pamela Meda

Siamo quattro psicologhe psicoterapeute senior, provenienti da esperienze formative diverse e aventi in comune l'approccio terapeutico sistemico e l'aver fatto parte per anni dell'ultimo gruppo di supervisione di Gianfranco Cecchin al Centro di Terapia Familiare di via Leopardi di Milano, conclusosi con la sua morte il 3 febbraio 2002.

Allora ci sarebbe piaciuto che la Scuola di Milano ci accompagnasse nell'elaborazione del lutto, ma così non fu. La richiesta di sciogliere il gruppo nell'immediatezza dell'evento tragico, benché effettuata con una certa 'ruvidezza', servì da stimolo a dare vita ad una realtà autonoma, sorgiva, che ci ha evitato il rischio di rimanere per sempre le “orfane di Cecchin”.

Il gruppo continua a riunirsi da allora: restano vivi e fondamentali per noi la parola e il “pensiero aperto” di Gianfranco Cecchin condensato nella sua avvertenza: “Non lasciatevi mai sedurre del tutto da un modello al punto da esserne irretiti”, la sua libertà e la sua vigilanza verso tutti i sistemi oppressivi, dentro e fuori di noi: “Il terapeuta irriverente cerca di non sentire il bisogno di seguire una teoria particolare o le regole che gli sono imposte dai clienti, dalle istituzioni, dagli ambiti in cui opera”[1]

Nei primi anni abbiamo messo energia nel definire i perché e i percome, sperimentando una modalità che abbiamo definito con il termine di “leadership passante” e che consisteva nel passaggio a turno del ruolo di moderatrice. Successivamente abbiamo adottato una modalità più spontanea e paritaria, in Italia definita comunemente di “intervisione”, termine utilizzato già negli anni '90 tra i facilitatori di gruppi di mutuo aiuto e poi diffusosi anche nel mondo della psicoterapia. Tra di noi si è via via creata una sorta di 'mente collettiva' nell'accezione usata da Mc Dougall:

“La mente di gruppo è un sistema organizzato di forze mentali...che non è compreso all'interno della mente di nessun individuo...ma che è piuttosto costituito dal sistema di relazioni che si ottengono tra le menti individuali che lo compongono e un linguaggio comune costruito sulla base di pensieri che circolano senza che ci si senta invase, annullate e/o indebitamente influenzate.”

Da anni, in una scena laica, ci consideriamo ricercatrici non ossequienti ad un modello teorico rigido, nutrendo immaginazione e competenze professionali, consapevoli, come avvertiva Cecchin che “la realtà è una costruzione relazionale che si attua in un dato dominio linguistico”. Il luogo in cui ci riuniamo appartiene a una collega esterna al gruppo, a cui paghiamo un contributo spese (in cambio di un buon caffè lungo) e ci riuniamo una volta al mese.

Veniamo da città diverse: Bergamo, Bologna, Bellinzona (CH). Una sola è di Milano e si 'sdebita' verso le forestiere con frutta e pasticcini: un'altra eredità di Cecchin, che noi definiamo di 'doppio nutrimento', teorico e affettivo- relazionale, che passa attraverso i canali concreti (oggetti, cibo) quanto simbolici (pensiero e linguaggio). Il limite di tali diverse dislocazioni è tutto negli imprevisti (intoppi di traffico e ritardi dei treni). il vantaggio è quello di poter confrontare e arricchirsi di esperienze provenienti da realtà istituzionali e culturali differenti.

Non c'è alcuna circolazione di denaro tra noi: lo scambio di tempo e di pensiero è nel segno della gratuità. La metodologia che abbiamo adottato e che via via è diventata meno strutturata, ma non per questo meno rigorosa, è stata ispirata al 'modello Cecchin', non definito in alcuno suo scritto, bensì da noi appreso negli anni di lavoro di supervisione con lui e che potrebbe così sintetizzarsi: presentazione del caso e motivo della richiesta di supervisione, domande, commenti e riflessioni delle colleghe, restituzione finale della richiedente. La domanda può anche non riguardare un caso, ma una questione relativa al setting, ai rapporti interistituzionali, oppure un tema oggetto di aggiornamento etc.

A nostro parere questa è stata la vera innovazione introdotta da Cecchin: la fonte primaria di conoscenza è il gruppo con la sua “volontà di sapere”[2], la sua inesauribile creatività circolare, la fiducia condivisa nella possibilità di mettere al mondo un pensiero, in definitiva la sua capacità relazionale perché, come amava ripetere Bateson, “prima di tutto è la relazione”.

Il leader, in questa prospettiva, resta sullo sfondo, semplice catalizzatore di un processo maieutico che si svolge innanzitutto nell'allievo e tra gli allievi/e. Come ricorda Recalcati “Il movimento del transfert non introduce il sapere nel soggetto, ma muove il desiderio del soggetto verso il sapere”.[3]

Nell'interpretare la figura del supervisore Cecchin si “sfumava”, finchè ognuno sentiva di dover “diventare un po' Cecchin”, un processo di contaminazione e introiezione ma anche di differenziazione e di costituzione autonoma di pensiero. Se così non fosse stato non potremmo essere qui, dopo 12 anni, a raccontarlo.

Pensiamo che in questo consista la differenza sostanziale tra un'esperienza comune di supervisione e quella da noi condotta. Ad esempio, rispetto all'esperienza di supervisione descritta da Roberto Mazza[4], mentre ci troviamo perfettamente concordanti con la metodologia illustrata, molto simile a quella da noi utilizzata, ci distinguiamo però rispetto alla presenza del supervisore, che incarna la dimensione della verticalità, peraltro indispensabile in un gruppo di super-visione. Per 'verticalità' intendiamo alcune funzioni, solitamente delegate alla figura del supervisore quali: porre domande, suggerire nuove letture, esplicitare ipotesi relazionali complesse, osservare i giochi in atto nel gruppo, operare connessioni a più livelli etc.  Il supervisore è qui supposto possedere un 'di più di sapere' rispetto ai membri del gruppo e per tale motivo gli viene affidata anche la responsabilità della gestione della dinamica di gruppo, per garantirne uno svolgimento sensato ed ordinato.

Nella peer supervision questa figura è solitamente ricoperta dal Moderator[5]. Quali i dispositivi che abbiamo allora adottato per porre in essere la dimensione della verticalità senza identificarla– nemmeno a turno- in qualcuna di noi (o in un/a esterno/a) ? 

Noi l'abbiamo cercata nella partecipazione, individuale e collettiva, a seminari, convegni, a cicli di supervisione gestiti da altri colleghi sistemici; una volta abbiamo anche invitato due colleghe che facessero da 'esterne': di tutte queste esperienze abbiamo messo in comune materiali e riflessioni ex post, per un arricchimento reciproco dei nostri saperi.

Oggi possiamo quindi affermare che la 'verticalità' non si identifica in una persona fissa, ma è diventata una 'figura' circolante' tra di noi e in ognuna di noi, riconosciuta quando emerge, auspicata quando stenta a comparire, in ogni caso nutrita dal desiderio di sapere, di apprendere dalla nostra esperienza professionale e di vita, nonché dalla volontà di dare continuità al lavoro di gruppo.

Lo svolgimento 'ordinato e sensato' delle riunioni è vissuto da ognuna come un 'proprio' compito e come tale assolto, in una sorta di bilanciamento, spontaneo ed autocorrettivo, tra lo scopo del gruppo e quegli 'assunti di base' che a volte ci trattengono in dimensioni 'altre' (affettive, di evasione, di intrattenimento, di godimento...).

Ma che cosa, a distanza di tanti anni, sorregge e mantiene in vita questa nostra realtà? L'essere diventate una piccola comunità di pensiero, a-valutativa e a-competitiva, in grado di scambiare con libertà competenze professionali di livello soddisfacente e arricchente per tutte; l'essere garanzia, l'una per l'altra, del reciproco grado di funzionamento, di resilienza e di igiene mentale, l'essere uno spazio di approfondimento e comprensione dei vissuti controtransferali, l'essere un luogo di presenza, dove porre domande e trovare risposte, all'insegna della curiosità- neutralità-irriverenza cecchiniane.

l'esercizio della critica/accettazione delle differenze, senza compiacimento né soggezione; il riconoscimento del valore e della dignità nostra e dei nostri pazienti, in risonanza con gli insegnamenti di Cecchin; la costante ricerca della guarigione e della salute; la fiducia nella irriducibile forza vitale dei pazienti alimentata da uno sguardo ironico e, se necessario, dissacrante; l'ascolto attento e partecipe, collocato nel qui e ora, con un'attitudine a cogliere qualcosa di prezioso e geniale nel/la paziente, come nella collega.

Da ultimo, forse perché più importante, la libertà di vivere il conflitto tra di noi senza scandalo né banalizzazioni, ma come possibilità di ricomposizione, perfino di armonia. Questa possibilità ci è data dal non aver bisogno delle 'grandi parole che spiegano il mondo' (di nuovo l'irriverenza), anzi nel ritenere, proprio per il lavoro che facciamo, che ogni definizione conclusiva ed esaustiva rappresenta, come avvertiva Adorno: “una cicatrice di un problema irrisolto”.[6]

Se cercassimo solo certezze e punti fermi svuoteremmo il desiderio stesso di pensare insieme, desiderio che nasce, come ricorda Chiara Zamboni, “dalla consapevolezza implicita della propria mancanza e non da contenuti solidi e già acquisiti che le definizioni ripetono”.[7]

Questa è la materia che dà sostanza alla metodologia della 'supervisione paritaria', questo è, in definitiva, il 'cielo' della nostra stanza.

E' un lavoro simbolico, di restituzione di senso al nostro agire, necessario quanto la stima che abbiamo l'una per l'altra, ma che non si confonde ne si fonda sull'amicizia, facilitante ma – in

questo orizzonte- non indispensabile.

In conclusione potremmo definire questa nostra esperienza professionale nei termini di un gruppo di

'supervisione paritaria', dove è presente la tensione a fare in modo che siano sempre presenti alcune

dimensioni (anche se non tutte contemporaneamente e con lo stesso grado di 'riuscita'):

 

[1]          1992

[2]          Foucault, La volontà di sapere, 1978

[3]          Recalcati, 2014

[4]          Mazza, 2014

[5]          Heller, 1989, Kassan, 2010, Borders, 2012

[6]          Adorno, 2007

[7]          Zamboni, 2009

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